Braille: luce di chi non vede – dalla tavoletta al digitale
Braille: luce di chi non vede – dalla tavoletta al digitale "Abstract Luciano Paschetta"

Inclusione dei disabili visivi: quale sostegno?

prof. Luciano Paschetta (Direttore Centrale I.Ri.Fo.R.)

 

  Assistiamo in questi ultimi mesi ad un interessante dibattito sul modello di inclusione scolastica: dopo anni di silenzio e di quiescenza sullo stato di fatto , finalmente si è aperto un confronto a tutto tondo  sul come si sia venuto sviluppando il processo di inclusione scolastica, un fiore all’occhiello che ha fatto scuola nel mondo intero, ma che, proprio per l’esperienza di questi quarant’anni merita oggi una franca riflessione sui suoi punti di forza e di debolezza.

  E’ verso la fine dell’Ottocento che, grazie anche allo sviluppo delle scienze pedagogiche avvenuto in seguito al rinnovamento del pensiero scientifico dato dall’Illuminismo, nasce l’attenzione all’”educabilità” e all’istruzione generalizzata dei disabili. Grazie all’impegno di  alcuni “pionieri” che si dedicheranno  alla ricerca pedagogica  in riferimento alle diverse tipologie di disabilità, ,   sorgono presso  istituzioni religiose e filantropiche  sperimentazioni di scolarizzazione sistematica di alunni con disabilità diverse.

  Maria Montessori e  Padre Gemelli  si occupano dell’istruzione dei disabili intellettivi , sorgono così in diverse città  presso gli istituti che li ospitano,  scuole   speciali dai nomi oggi poco accettabili: classi per bambini deficienti o ritardati, classi medico pedagogiche , e così via. Augusto Romagnoli  sviluppa e sperimenta la sua ricerca tiflopedagogica presso l’Ospizio Regina Margherita di Roma e istituirà presso l’annesso istituto che prenderà poi il suo nome, le prime classi speciali per l’istruzione dei ciechi, stessa cosa farà  l’abate Silvestri che, dopo essere andato a Parigi ad apprendere il metodo “Picard”, da vita alla prima scuola speciale per i  sordi. Sarà  solo  con la riforma Gentile del 1923  che lo stato si occuperà di formalizzare l’educazione dei disabili sensorialità. In essa viene  dichiarato l’obbligo di istruzione per i ciechi ed i sordi ed  il T.U.  delle leggi sull’istruzione elementare del 1928 , prevederà la trasformazione  con regi decreti dei  vari istituti  per i ciechi e di quelli per i sordi in Enti di istruzione ponendoli sotto la vigilanza dello stesso Ministero. Un R.D  del 1933 renderà poi effettiva  anche l’attivazione di scuole  statali  speciali per i disabili intellettivi  come era stato previsto dal T.U. del 1931. Di questo periodo, particolarmente interessante è il modello di scolarizzazione integrato ante litteram previsto peri  ciechi dalla riforma Gentile: esso prevedeva che i bambini con disabilità visiva frequentassero nelle   scuole  elementari speciali,  operanti negli istituti per ciechi,  solo il primo ciclo della scuola elementare (fino alla terza), mentre dalla quarta elementare in poi i ragazzi proseguivano gli studi nella scuola di tutti: nelle scuole elementari prossime all'istituto, poi nelle scuole medie della città e così fino al termine della scuola  superiore.                                             E’ questa la fase  del processo di scolarizzazione dei disabili, che gli storici  del settore chiamano come “fase dell’esclusione”, che resta praticamente immutata fino agli anni ’70, alla stessa logica    appartengono la statalizzazione delle scuole speciali per ciechi e per sordi annesse agli istituti, e la  legge n. 1859 del 1962 , istitutiva della scuola media unica, che , all’articolo 12   stabilirà “possono essere istituite classi differenziali per gli alunni disadattati scolastici”: e   il successivo DPR  applicativo n. 1518 del 1967,  che preciserà che “i soggetti che presentano anomalie o anormalità somato-psichiche che non consentono la regolare frequenza nelle scuole comuni e che abbisognano di particolare trattamento e assistenza medico-didattica sono indirizzati alle scuole speciali. I soggetti ipodotati intellettuali non gravi, disadattati ambientali, o soggetti con anomalie del comportamento, per i quali possa prevedersi il reinserimento nella scuola comune sono indirizzati alle classi differenziali”. Concretamente alla fine degli anni ’60 noi avremo: scuole elementari e medie speciali, con anche classi differenziali  nelle elementari.

  Per quanto riguarda i disabili  visivi,  alla fine degli anni ’60 questi sono stati “scippati” del loro diritto  all’inclusione,  obbligati a frequentare in classi speciali tutto il periodo dell’obbligo scolastico (fino alla 14 anni), mentre, fino al ’53, avevano frequentato con successo nelle classi comuni a partire dalla quarta elementare e senza la presenza  in classe di nessun insegnante di sostegno.

I docenti delle classi speciali per ciechi dovranno possedere la specializzazione per gli "Educatori dei disabili visivi” rilasciata dalla scuola di metodo “Augusto Romagnoli”, e per insegnare ai sordi occorrerà la specializzazione per l’insegnamento ai sordi rilasciata dall’Istituto Magarotto, mentre per insegnare nelle classi speciali ai disabili intellettivi i docenti dovranno avere frequentato i corsi “ortofrenici” presso le facoltà di magistero.

  Tutti questi provvedimenti sono ispirati più dalla necessità di salvaguardare le istituzioni scolastiche speciali , che dalla riflessione tiflopedagogica.

  Sarà l’emanazione nel 1977 della legge 517 la prima legge organica per l’integrazione scolastica a segnare un punto di svolta del processo di inclusione. Questa, quale strumento per l’integrazione dei ragazzi con disabilità,  prevede il “sostegno” di un docente che doveva supportare il consiglio di classe  per la programmazione di una didattica inclusiva. Al fine di agevolare l'attuazione del diritto allo studio e la piena formazione della personalità degli alunni, la programmazione educativa può comprendere attività scolastiche di integrazione anche a carattere interdisciplinare, organizzate per gruppi di alunni della stessa classe o di classi diverse, ed iniziative di sostegno, anche allo scopo di realizzare interventi individualizzati in relazione alle esigenze dei singoli alunni.” .

  Di qui  in poi, il “focus” mirato all’integrazione degli alunni con disabilità intellettiva o con ritardi di apprendimento e sulla centralità della figura del docente di sostegno più che sull’organizzazione di una “azione didattica di sostegno" del contesto, rappresenteranno il punto di debolezza che minerà l’evoluzione positiva del processo di inclusione. 

  La formazione  dei docenti di sostegno, vista alla presenza nella stragrande maggioranza di casi di disabili con ritardi di apprendimento,  via, via, negli anni andrà sempre più verso una formazione,  sempre meno attenta alle tematiche relative alle specifiche disabilità (fossero esse sensoriali o intellettive), con una impostazione sempre più “generalista” e sempre meno attenta ai bisogni specifici.

  E’ così  che a fianco dei nostri ragazzi troviamo, sempre più spesso, insegnanti che poco o nulla sanno di tiflopedagogia e tiflodidattica, di come si comunica con i sordi, sulle  modalità per entrare in relazione con un autistico o di quali siano le peculiarità delle modalità di apprendimento di un alunno con sindrome di Down, piuttosto che sulle tecniche per superare la dislessia, e così via.  La  loro opera, ispirata ad un “buonismo” protettivo, a volte favorirà addirittura l’isolamento dell’alunno dal contesto della classe. 

  Anche perché l’altro punto di debolezza del processo è il mancato coinvolgimento del contesto nel processo di inclusione.

  Si affermava  così un modello di inclusione “centrato” sul docente di sostegno, anziché sull’attivazione del contesto al sostegno, conseguentemente, a partire dagli anni ’90 anche i disabili visivi iscritti nelle scuole superiori, cosa mai successa fino ad allora, si vedranno affiancare un docente di sostegno. 

  Un altro punto di debolezza è da ricercarsi anche nella “dispersione” delle competenze tiflopedagogiche: l’istituto Romagnoli,   sempre meno autorevole, incapace di continuare ad essere il punto di riferimento per sensibilizzare i "circoli culturali", l’università e gli intellettuali sulle tematiche dell'educazione e dell'integrazione sociale dei disabili visivi, e dagli anni ’70, incapace di “leggere il cambiamento”, inizia il suo declino con la progressiva perdita di prestigio, quale centro di ricerca tiflopedagogica, fino a giungere, negli anni ’90 alla sua chiusura di fatto.

  Negli anni ’70 e ’80, mentre l’Unione Italiana dei Ciechi manteneva una posizione di “attesa” e contraddittoria verso l’inclusione, la Federazione delle istituzioni pro ciechi, refrattaria al processo di integrazione,  anziché metter al servizio della scuola la sua esperienza per favorire il processo di inclusione, rimaneva chiusa in se stessa diventando sempre più autoreferenziale, rimanendo anch’essa ai margini del movimento di rinnovamento culturale e scientifico della psicopedagogia che in quel periodo caratterizzava le università italiane.

 Questa “assenza” della tiflologia nel dibattito psicopedagogico in corso e  il numero proporzionalmente “insignificante” di disabili visivi in rapporto alla totalità dei disabili, inseriti nei vari ordini di scuola (circa il 2%), fa crescere l’idea della formazione polivalente e della necessità di superare le specializzazioni  dei docenti di sostegno. In questo clima culturale  verranno definiti i principi fondanti della legge quadro 104 del 1992, dove l’attenzione alle specificità per ciechi e sordi  viene demandata  all’ “assistenza alla comunicazione”, ma di queste figure a distanza di quasi 25 anni, non sono stati mai definiti né il profilo professionale, né il percorso formativo degli stessi.

  Sarà solo alla metà degli anni ‘90 che l’Unione Italiana dei Ciechi, superati i tentennamenti,    indicherà nel modello di inclusione la modalità di scolarizzazione dei disabili visivi e inviterà gli istituti a diventare centri erogatori di servizi a  sostegno dell’integrazione scolastica.

  Fu questa una svolta importante anche se tardiva e realizzata in modo disomogeneo dalle varie realtà, che tuttavia ha permesso che oggi  siano attivi a servizio del processo di inclusione, oltre ad alcuni ex istituti per ciechi, 17 Centri tiflodidattici.

  L’attuale dibattito muove proprio dalla constatazione del livello insoddisfacente del modello di inclusione scolastica così come si è venuto sviluppando, anche se, a nostro avviso manca il coraggio di  fare scelte veramente alternative, ma realistiche e fondate sull’esame delle “debolezze” del modello.

Non ci sembra coraggiosa la posizione del prof. Janez, vicina al movimento dei docenti “bis-abili” che vorrebbe un docente part-time tra sostegno e cattedra disciplinare, e utopica la proposta del prof. Bocci che invoca la specializzazione di tutti i docenti. A noi sembrano più interessanti  e “coraggiosi” quei modelli che non mettono al centro del processo di inclusione l’insegnante di sostegno   rivendicano la necessità di supporti specifici, quale l’esperienza di Trento che offre alla famiglia la scelta tra il docente di sostegno ed il facilitatore o quella di Brescia dove un apposito consorzio garantisce ai ragazzi con disabilità visivi gli specifici supporti.

  Partendo proprio  da queste riflessioni sulla “nostra storia”, dobbiamo trovare il coraggio di andare oltre, il coraggio di dire che ai nostri ragazzi questo modello che è passato a fornire da meno di 13 ore medie  settimanali dei primi anni ’90 , le attuali 25 ore medie settimanali di sostegno, e che, come tale ha degli elevatissimi costi, non serve a garantire ai nostri ragazzi una positiva frequenza delle scuole, né a favorire una loro reale inclusione sociale. Dobbiamo trovare il coraggio di dire ai genitori che il rapporto uno a uno non serve a migliorare la qualità dell’inclusione dei propri figli e che è dimostrato che non è l’aumento delle ore di sostegno ad elevare il livello dell’inclusione. Dobbiamo trovare il coraggio di dire che serve un modello incentrato su “servizi” di sostegno in grado di mettere i ragazzi nelle condizioni di seguire autonomamente le lezioni dei docenti titolari. Dobbiamo trovare il coraggio  di proporre un modello che tenga presente che per garantire il successo scolastico di un alunno con disabilità, serve  un  sostegno specializzato  con competenze specifiche, un sostegno che  sappia organizzare il contesto, rendendo “capaci” all’insegnamento dei ragazzi con disabilità i docenti titolari, fornendo loro gli  strumenti perché essi riescano ad interagire positivamente con lui, un sostegno che sappia indicare gli aspetti critici dello sviluppo psicomotorio in assenza della vista e come si faccia a superarli con successo; chiarire gli aspetti specifici della percezione della realtà in mancanza della vista; valutare la funzionalità del residuo visivo in relazione al lavoro didattico e/o professionale; insegnare come si educa un minorato della vista alla “lettura” delle rappresentazioni grafiche bidimensionali (grafici, piantine toponomastiche e cartine, ecc); sapere quando è indispensabile l’insegnamento del metodo Braille, piuttosto che quali siano i sussidi per gli ipovedenti per rendere autonomo il bambino con disabilità visiva nella letto-scrittura; illustrare quali siano gli accorgimenti ed i sussidi per rendere efficace la didattica in presenza di un cieco assoluto e/o di un ipovedente grave; sapere insegnare l’uso del PC con le periferiche assistive (screen reader, display Braille, software ingrandenti, ecc.); conoscere i giochi idonei al bambino con gravi problemi di vista; indicare quali siano le opportunità di accesso all’informazione (quotidiani e riviste online accessibili, biblioteche digitali, audiolibri, ecc.); suggerire come si “adatta” un testo di scuola primaria od un testo letterario o scientifico affinché il privo della vista o l’ipovedente lo possano utilizzare appieno; spiegare quali siano le possibilità di orientamento, mobilità e di autonomia personale raggiungibili alle diverse età e nelle diverse situazioni da chi ha problemi di vista; valutare l’idoneità di una situazione di lavoro e la sua adattabilità al cieco o all’ipovedente. Questo solo per esemplificare gli ambiti delle  principali competenze.

  E’ questo tipo di  sostegno che  ha permesso in passato  ai ragazzi con disabilità  visiva di frequentare  autonomamente e con successo la scuola di tutti  senza docenti di sostegno.

  Per raggiungere questo obiettivo era necessario fermare la “dispersione” della tiflologia ed in questi giorni, l’Unione e gli enti ad essa collegati, stanno dando vita ad un’autority delle “scienze tiflologiche”  che dovrà essere: il luogo  della ricerca, del rilancio, della diffusione e della formazione tiflopedagogica e tiflodidattica e che dovrà diventare un riferimento  autorevole  agendo in sinergia  con esse, per scuole ed università sulle metodologie e gli strumenti per l’inclusone scolastica dei disabili visivi.

  Solo con un progetto di sistema, guidato da quelle realtà che negli ultimi cento anni si sono occupati di educazione, istruzione, formazione ed inserimento lavorativo dei disabili visivi (UICI, Federazione Pro Ciechi, Biblioteca per i ciechi, I.Ri.Fo.R. ecc.), ma  sviluppato in modo integrato con il MIUR e con l’intero contesto della formazione e dell’istruzione, la tiflologia, uscendo dall’attuale  limbo, potrà diventare una scienza conosciuta e “riconosciuta” dall’intera comunità scientifica.

                                                          

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